Il water grabbing e la sete di risorse idriche

Fisco e Lavoro

Emanuele Bompan, giornalista ambientale e geografo, direttore della rivista “Materia Rinnovabile”, si occupa di economia circolare, cambiamenti climatici, green economy e molto altro. Abbiamo avuto il piacere di incontrarlo e parlare con lui, non solo delle sue ultime pubblicazioni “Water grabbing” e “Atlante geopolitico dell’Acqua”, ma anche della sua recente partecipazione alla Cop26 di Glasgow.

Dottor Bompan, ci può spiegare cos’è il water grabbing, da cosa dipende e quali effetti produce?

Con la crescita della domanda alimentare mondiale, dovuta all’aumento sia della popolazione che della possibilità delle persone di permettersi sempre più alimenti, è inevitabilmente cresciuta la sete di terre, che indichiamo con il termine land grabbing, ma anche la sete di risorse idriche – e non solo – per il settore alimentare, energetico ed industriale. In alcune aree del pianeta, la risorsa idrica è pertanto scarsa e gli attori economici e politici – governi, autorità militari, multinazionali, utilities – sono sempre più interessati alla sua gestione.

In tale contesto abbiam visto accelerare i processi di controllo di fiumi, falde acquifere o corsi d’acqua, a discapito di soggetti deboli quali le comunità, le regioni o intere nazioni, come nel caso di Israele e Palestina, attraverso la sottrazione di un bene comune che viene privatizzato o reso indisponibile a determinati soggetti per scopi di approvvigionamento, irrigazione – come nei grandi progetti di agrobusiness – e per le energie non rinnovabili, ma anche nel settore idroelettrico, come nel caso del fiume Mekong in Etiopia.

Nel libro si evidenzia come una prolungata siccità possa avere effetti negativi sull’agricoltura. A riguardo lei afferma che il water grabbing diventa un “furto della sicurezza alimentare”. Ci potrebbe parlare della questione dei migranti climatici?

Il grande consumo di fonti fossili per l’industria, la produzione di energia ed i trasporti è alla base di un cambiamento sempre più rapido del clima terrestre, che va ad alterare – oltre alle temperature – anche la geografia idrica del nostro pianeta. Si è registrato sia un aumento dei fenomeni di alta piovosità, con tante piogge in un lasso temporale estremamente ristretto, sia l’assenza di fenomeni piovosi con l’aumento dei periodi siccitosi e conseguente incremento della domanda idrica dovuta all’aumento delle temperature; sappiamo bene che in alcune aree del pianeta per crescere derrate alimentari è fondamentale l’irrigazione e nel momento in cui aumentano le temperature ed anche i periodi in cui le stesse permangono elevate aumenta di conseguenza il prelievo idrico.
Dobbiamo inoltre fronteggiare lo scioglimento delle calotte polari e la fusione dei ghiacciai – come quelli delle Alpi – fenomeni che riducono l’apporto idrico e che hanno impatti diretti in termini di catastrofi, come le lunghe siccità, i grandi fenomeni tempestosi, le inondazioni e le nevicate molto abbondanti. In aggiunta a questo, la trasformazione generale della disponibilità idrica spinge intere comunità di persone a migrare, diventando migranti climatici, termine che ancora non ha avuto una piena definizione giuridica, ma che sempre più diventa un fact on the ground. Lentamente anche il legislatore sta cominciando a prendere coscienza di questo problema, dei soggetti che diventano rifugiati politici non per motivi di oppressione civile, quanto per il fatto che il governo non offra
loro sufficienti tutele dall’esposizione ai rischi di cui parlavo prima. Ci troviamo in un mondo in pericolo dal punto di vista dei cambiamenti climatici, e l’acqua, con l’innalzamento del livello dei mari, la siccità, i fenomeni alluvionali e le grandi tempeste, costituisce sempre di più un rischio crescente per i cittadini di tante aree del nostro pianeta.

In un capitolo del libro lei parla della lotta allo spreco alimentare e dei riflessi sull’ambiente. Qual è l’impatto idrico del cibo non consumato e di quello conseguente al sovraconsumo? In particolare, cosa si intende con l’espressione “acqua virtuale” o “acqua invisibile”?

L’acqua virtuale è la quantità di acqua che è incarnata in un prodotto. Quando noi compriamo un ananas proveniente dal Brasile questo frutto contiene una quantità di acqua virtuale che non è solo la percentuale di acqua che costituisce l’ananas, ma è tutta l’acqua che ha consentito a questo frutto di crescere ed arrivare fino da noi: l’acqua necessaria per irrigare le piantagioni di ananas, l’acqua che serve per la lavorazione, l’acqua necessaria per tutto il ciclo di vita del prodotto; pensiamo anche ai carburanti utilizzati per trasportarlo ed ai materiali per imballarlo. Dunque, quando arriva a noi l’ananas racchiude virtualmente in sé tutta questa quantità di acqua. È la sua impronta idrica complessiva che noi non vediamo.
È fondamentale capire questo concetto, perché a seconda dell’origine di un prodotto l’impronta idrica può variare: in un paese estremamente piovoso dove crescono gli ananas, l’impronta idrica è sicuramente ridotta rispetto ad un paese arido dove invece è necessaria un’abbondante irrigazione delle piantagioni. Oggi ci sono 2,1 miliardi di persone che sono sovrappeso od obese che consumano una quantità di cibo maggiore di quella che sarebbe necessaria per una piena salubrità del soggetto. Allo stesso tempo abbiamo una quantità di cibo che dalla coltivazione alla tavola viene sprecata ancor prima di essere mangiata.
Alla base c’è un problema di immagine del cibo, nel senso che noi non siamo disposti a comprare del cibo in scadenza o appena scaduto, non siamo abituati a comprare del cibo di non bell’aspetto; si tratta anche di un problema di mancanza della catena del freddo in tanti paesi in via di industrializzazione o meno sviluppati, di cattiva gestione degli stock alimentari nei supermercati della grande distribuzione organizzata, di raccolti persi, di tutti quei momenti in cui si verifica uno spreco alimentare fino ad arrivare alle case dove la gente ha una cattiva gestione della cambusa, il nostro stock di fresco. Tutto questo cibo contiene acqua ed energia che vanno sprecate. Abbiamo così emissioni di CO2, impatto sulla biodiversità, elevata impronta idrica, per produrre qualcosa che di fatto, se gestito male, non diventa né compost, né biogas ma un vero e proprio scarto.

In cosa consiste e quali sono le cause dello stress idrico di cui lei parla nell’atlante geopolitico dell’acqua?

Lo stress idrico non è da confondersi con la scarsa disponibilità d’acqua; infatti, dalla mappa riportata nel libro si nota come l’Africa non sia particolarmente esposta allo stress idrico a differenza di paesi come l’India o la Cina che hanno tassi molto più alti di esposizione. La formula per conteggiare lo stress idrico è quella del prelievo di acqua necessaria per tutta l’attività antropica – principalmente in agricoltura, ma anche per l’industria e per l’uso domestico – rispetto alla disponibilità di un determinato paese o nazione.
Si tratta dei casi di agricoltura estremamente idrointensiva, grande produzione di energia da fonti fossili – quali il carbone o determinate tipologie di petrolio – che richiedono ingenti quantità d’acqua per la produzione.

In situazione di grave scarsità idrica troviamo soprattutto l’India che ha una crescente ridotta piovosità e dove si verificano fenomeni di elevato stress idrico, che nella mappa abbiamo sottolineato in rosso ad indicare il superamento della soglia critica dell’80%. La mappa in questione è importante perché ci indica quei paesi che già nei prossimi anni dovranno affrontare serissimi problemi di approvvigionamento idrico con conseguente riduzione della produzione alimentare, tensioni sociali e politiche.

Con riferimento al quadro nazionale italiano, cosa sono “Le quattro sorelle dell’acqua” ed in che modo potrebbero agire le istituzioni italiane ed i cittadini stessi per contrastare il water grabbing?

Ci sono due aspetti ben distinti di questo problema. Da un lato c’è un problema squisitamente politico. L’Italia ha fatto un referendum sull’acqua, votato ed approvato a grande maggioranza, ma che ancor oggi non vede approdare definitivamente una specifica legge che accolga quanto proposto, definendo un quadro intelligente per una gestione pubblica dell’acqua. La legge auspicata dovrebbe beneficiare quelle utilities che gestiscono il bene in maniera pubblica, quindi non devolvendo gli extra profitti agli azionisti, ma reinvestendoli interamente per il miglioramento ed il potenziamento della rete e della gestione idrica, che tra l’altro vedremo migliorare, o almeno si spera, nei prossimi anni anche grazie all’apporto dei fondi europei, tramite il piano nazionale di ripresa e resilienza.

Dal punto di vista dei cittadini c’è invece un problema legato al fatto che, da un lato, consideriamo fondamentale un’acqua pubblica di qualità, con un sapore ed una sicurezza garantita dalle utilities – le quali però non hanno la responsabilità dell’ultimo miglio, cosa che spesso compete ai cittadini, che hanno il dovere di mantenere le tubature delle proprie case – e dall’altro, i cittadini comprano l’acqua in bottiglia. L’Italia in questo ha un terribile record. Siamo quasi arrivati ad essere i primi al mondo per consumo di acqua in bottiglia; dagli ultimi dati sembrerebbe che abbiamo superato anche Messico e Thailandia, complice forse la pandemia ed anche un po’ di ottusità delle persone che si fidano di meno dell’acqua del rubinetto. Si è visto un aumento del consumo dell’acqua in bottiglia, che è molto costosa (quasi mille volte di più dell’acqua pubblica). Ulteriore paradosso è che l’acqua pubblica viene percepita dal cittadino come molto costosa, quando invece è tra le più economiche in Europa.


Secondo me è necessario educare i consumatori che sono stati violentemente drogati dal settore dell’acqua in bottiglia a suon di marketing; quando si compra acqua in bottiglia principalmente si paga plastica e marketing, in quanto i canoni di erogazione concessi dallo stato e dalle regioni agli imbottigliatori sono bassissimi, e tutti i margini ed i costi per l’imbottigliatore sono in realtà dovuti alle bottiglie ed a tutto il costo di marketing – costo che ha superato quasi i cinquecento milioni di euro per l’anno 2020 – che potrebbe essere invece sfavorito da una legge che renda più equo il costo dell’acqua per l’imbottigliatore, facendoglielo quindi pagare di più, per migliorare quel servizio idrico che purtroppo in alcune province del paese rimane gravemente insufficiente.

Nel 2010, con una risoluzione delle Nazioni unite, l’acqua è stata formalmente riconosciuta quale diritto internazionale. Perché allora si parla di tale diritto come di una chimera?

Si tratta di una chimera perché, purtroppo, il numero di stati che ha ratificato questa decisione non raggiunge neanche la metà dei paesi membri delle Nazioni unite.
Inoltre, c’è ancora da fare un grande lavoro per aumentare la pressione sui governi affinché creino un framework legislativo e spingano effettivamente per una piena adozione di questo principio che, sebbene abbia compiuto dodici anni, continua ad avere poco supporto.

Lo scorso novembre lei ha seguito la Cop26 a Glasgow. Quali sono stati i migliori risultati raggiunti e quali invece le decisioni mancate?

Glasgow non è stato un pieno successo nonostante siano stati approvati, a livello procedurale e normativo, tantissimi elementi centrali – quali, ad esempio, i meccanismi di monitoraggio e di trasparenza – che consentono di proseguire con una piena implementazione degli ndc (nationally determined commitments), ossia gli obiettivi di riduzione delle emissioni e di piani di adattamento determinati da ogni singolo paese, che rendono più facilmente comparabili e verificabili le azioni effettivamente intraprese dai paesi firmatari dell’accordo di Parigi, in un’ottica di decarbonizzazione, verso gli obiettivi del 2030. A Glasgow è stato fissato l’obiettivo della riduzione del 45% di tutte le emissioni entro la fine di questo decennio, mentre non c’è stata la definitiva approvazione dell’obiettivo climatico di contenere di 1,5 gradi l’innalzamento della temperatura al 2030, considerato fondamentale per preservare la sicurezza e la tenuta del pianeta; il pieno convincimento di questo obiettivo arriverà nei prossimi negoziati, ma ritengo sicuramente più importante l’approvazione delle normative procedurali, in quanto costituiscono un rafforzamento di tutta l’architettura dell’accordo di Parigi.

Non è ancora stato raggiunto, sebbene si sia vicini, l’obiettivo dei cento miliardi di dollari l’anno di fondi per la conversione ecologica dei paesi in via di sviluppo, che i paesi sviluppati avrebbero dovuto mobilitare a partire dal 2020, né sono stati definiti gli impegni finanziari a partire dal 2030; per questi aspetti dovremo aspettare la Cop28 di Abu Dhabi.


Grande delusione, inoltre, per quanto riguarda il meccanismo di loss&damage, che è una sorta di assicurazione legata ai danni causati dal cambiamento climatico a favore di quei paesi che a causa del reiterarsi, ad esempio, di tifoni catastrofici posso essere messi completamente in ginocchio. Sappiamo che il cambiamento climatico ha creato instabilità politica in diversi paesi, come nel nord del Mozambico – a causa dei tifoni e dell’insorgenza di comunità terroristiche – o nel Ciad, dove la scarsità idrica ha favorito l’insorgenza di movimenti jihadisti africani. Poiché questa instabilità può essere foriera di gravi problemi politici, il meccanismo di loss&damage dovrebbe aiutare i paesi più esposti a riprendersi dopo simili shock. Si tratta di un meccanismo estremamente complesso per ragioni anche squisitamente giuridiche; è difficile, infatti, collegare direttamente una catastrofe metereologica al cambiamento climatico e – non essendoci sempre una chiara correlazione tra gli eventi – risulta difficile l’attribuzione delle risorse economiche, così come non sono chiari i meccanismi con cui dovrebbe funzionare questa facility.
È un tema che vedremo discusso ampiamente alla Cop27 che si terrà quest’anno in Egitto; già adesso i lavori dei negoziatori si stanno concentrando in questa direzione. Un brutto danno di immagine, infine, è stato quello di non menzionare il phase out definitivo del carbone; si attendeva, infatti, per la prima volta, una menzione per la dismissione graduale, ma completa, del carbone come fonte fossile.

Come è nato e di cosa si occupa l’osservatorio water grabbing?

L’osservatorio nasce dalla volontà di voler documentare le questioni di accaparramento idrico ed, in generale, di portare attenzione a livello nazionale – e non solo – alla tematica dell’acqua, sul suo essere un bene pubblico, tenendo alta l’allerta sulla finanziarizzazione e privatizzazione di questa risorsa, stimolando il discorso a livello di cittadinanza e continuando un lavoro di monitoraggio a livello globale grazie ad una rete di giornalisti ed esperti che collaborano volontariamente con l’osservatorio.

Perché un capitolo del suo libro è intitolato “l’acqua è donna”?

Il capitolo è stato scritto da Marirosa Iannelli, presidentessa dell’osservatorio, collega e coautrice del libro “Water grabbing”, da sempre esperta di temi di cooperazione allo sviluppo. Lei racconta la sua esperienza diretta su cosa significhi per tutte le donne la mancanza di acqua per l’igiene e per la sopravvivenza, soprattutto per coloro che sono più esposte ai rischi legati alla mancanza di infrastrutture idriche ed alla contaminazione dell’acqua.

Lei pensa che i giovani siano sufficientemente consapevoli dei problemi legati ai cambiamenti climatici e dell’importanza di modificare i propri stili di vita per limitare i consumi di acqua? Il sistema scolastico potrebbe fare di più?

Sicuramente bisogna catalizzare l’attenzione su queste tematiche. Il sistema scolastico ci sta provando, ci sono molti corsi di formazione per i docenti – noi stessi ne abbiamo fatti vari – sui temi ambientali, quali l’acqua, il cambiamento climatico e la biodiversità. Secondo me, le persone non sono ancora pienamente consapevoli di questi problemi che hanno una grande complessità. Spesso sappiamo che ci sono problemi legati al clima, all’acqua ed alla biodiversità, ma la nostra etica non corrisponde a quello che è necessario fare. Dovrebbe essere il sistema legislativo, innanzitutto, ad agevolare il cittadino per poter avere una vita di benessere, agio e comunità nel rispetto della necessità di garantire i servizi dell’ambiente alle generazioni future. Purtroppo, ci sono figure politiche, direttori generali o giuristi poco competenti a trattare questi argomenti ed incapaci di favorire una visione olistica rispetto ad una soddisfazione di breve termine. C’è bisogno, a mio avviso, di maggiore intelligenza ed innovatività nell’apporto del pubblico e del legislatore; siamo ancora all’età della pietra quando si parla di diritto ambientale e della relativa governance.

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